LAV13297 – Lavoro. Sentenze della Corte di Cassazione

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Roma, 16 Ottobre 2013

LAV13297
SM

Oggetto: Lavoro. Sentenze della Corte di Cassazione

Licenziamento – illegittimità se causato da patologie non invalidanti.
Con sentenza n. 23068 del 10 Ottobre u.s, la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore affetto da una patologia che, comunque, non gli impediva di svolgere le sue mansioni previa adozione, da parte del datore, delle opportune cautele richieste dalla Legge per evitare rischi alla salute. Nella stessa sentenza, la Corte ha affermato che l’eventuale inidoneità fisica a ricoprire una certa mansione, accertata dal medico competente ai sensi dell’art. 5 dello Statuto dei lavoratori (Legge 300/1970 e ss modifiche), non ha il carattere dell’insindacabilità; pertanto, tale accertamento non impedisce al Giudice né di ordinare una consulenza tecnica d’ufficio, né di decidere nel senso di ritenere compatibile lo svolgimento della mansione con la malattia che affligge il lavoratore (previa adozione, come detto, di eventuali accorgimenti imposti dalle norme), sulla base del parere tecnico espresso dal CTU.
Nel caso affrontato dalla Corte, il CTU, smentendo il pronunciamento medico, aveva ritenuto compatibile con una patologia alla schiena, un’attività di movimentazione manuale dei carichi con frequenti spostamenti sul piano di lavoro di pesi superiori ai 10 Kg, a condizione che il datore di lavoro avesse adottato le cautele impostegli dagli artt. 167 ss del Dlgvo 81/2008 (T.U sulla salute e sicurezza sul lavoro).

Licenziamento per assenza del lavoratore – illegittimità se dovuta a mobbing.
Con sentenza n. 22538 del 2 Ottobre u.s, la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato al dipendente a causa delle troppe assenze per malattia, quando appaia anche semplicemente probabile che quest’ultima sia stata causata dall’azione di mobbing intrapresa nei suoi confronti dal datore. Nel caso di specie, la c.t.u medico legale aveva accertato che, con ogni probabilità, le ripetute assenze per malattia del lavoratore nell’ambito di un periodo complessivo di 7 mesi, erano state provocate dalla condotta osservata  nei suoi confronti dall’azienda; quest’ultima, ad esempio, aveva commissionato ben 15 visite mediche di controllo in un arco di due mesi, nonché comminato una serie di sanzioni disciplinari (dalla multa alla sospensione) che, in seguito, erano state ritenute illegittime dal Tribunale competente. Il licenziamento era stato intimato sostenendo, da parte datoriale, che le assenze per malattia maturate dal soggetto avevano superato abbondantemente il periodo di comporto stabilito dal CCNL; argomentazione, questa, rifiutata dai giudici di merito in quanto le assenze dal lavoro causate dal mobbing non sono computabili ai fini del calcolo del periodo di comporto.

Licenziamento per ritardo reiterato a lavoro e falsificazione della presenza.
Con sentenza n. 21203 del 17 Settembre 2013, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore senza fornire il preavviso ai sensi dell’art. 2119 del codice civile, quando questi abbia ripetutamente osservato comportamenti tali da ledere irrimediabilmente il nesso di fiducia alla base del rapporto di lavoro (quali timbrature false dell’orario di entrata e l’allontanamento ingiustificato dal luogo di lavoro). Ciò vale anche se i fatti si sono svolti qualche mese prima rispetto alla contestazione al dipendente; infatti, come sottolinea la Corte, “non si può pretendere dal datore di lavoro che questi informi il lavoratore dell’illiceità della condotta tenuta, quando ancora i suoi contorni non sono chiari e non è sintomatico di una volontà abdicativa il tempo trascorso per accertare i fatti”. Nel caso di specie, gli accertamenti sulla condotta del lavoratore erano avvenuti nel Dicembre del 2007, in modo da fugare ogni dubbio circa l’occasionalità del comportamento che si era ripetuto, identico, nei mesi di Settembre e Novembre dello stesso anno.

Demansionamento del lavoratore.
Con Sentenza n. 21356 del 18 Settembre 2013, la Corte di Cassazione ha affermato che il demansionamento del lavoratore non può essere giustificato dalla volontà di impedirne il licenziamento, tenuto conto che questi non è obbligato ad accettare il nuovo incarico. La Cassazione afferma che è certamente nei poteri dell’imprenditore, quello di operare una ristrutturazione aziendale con la soppressione di alcune figure professionali; tuttavia, al lavoratore andavano affidate mansioni compatibili con il livello di inquadramento e con la professionalità acquisita, il ché non è avvenuto nel caso concreto visto che le nuove mansioni proposte, a differenza delle precedenti, erano prive di autonomia e responsabilità.

Illegittimità del licenziamento del lavoratore in malattia, sorpreso a svolgere altra attività saltuaria.
Con sentenza n. 23365 del 15 Ottobre u.s, la Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento comminato ad un dipendente che, nel periodo in cui si trovava in malattia, era stato sorpreso a svolgere un’attività lavorativa presso l’impresa di un parente. In particolare, la Corte ha accolto le ragioni del lavoratore ricorrente, affermando che l’attività prestata durante la malattia era stata saltuaria ed episodica sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, non potendo quindi qualificarsi come lavorativa. Inoltre, il lavoratore non aveva violato i canoni di correttezza e buona fede alla base del rapporto con il datore, in quanto il suo stato di malattia era indubitabile e l’attività svolta sporadicamente nell’impresa del parente era del tutto compatibile con la sua condizione, non ostacolandone  la guarigione.

Responsabilità del datore di lavoro in tema di formazione del personale.
Con sentenza n. 40065 del 1 Ottobre 2013, la Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro deve fornire una formazione adeguata rispetto ai rischi offerti dall’attività svolta dal lavoratore. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che due soli incontri di 15 min. ciascuno fossero insufficienti per istruire adeguatamente il lavoratore sui rischi dell’attività e sulle cautele da adottare; non solo, ma il datore avrebbe dovuto accertarsi che i lavoratori avessero compreso i comportamenti da adottare, cosa che invece non era avvenuta. Per questo motivo, la Suprema Corte ha confermato la condanna del datore di lavoro per inosservanza dell’art. 22, comma 1, del d.lgvo 626/1994 (ora art. 37 del d.lgvo 81/2008)

Versamento delle ritenute d’acconto da parte del datore di lavoro – responsabilità in solido del dipendente.
Con Sentenza n. 23121 dell’11 Ottobre u.s, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento inviato dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di un dipendente, per il mancato versamento delle ritenute di acconto Irpef indebitamente trattenute dal suo datore di lavoro. Secondo la Suprema Corte, l’art. 35 del testo unico sulle imposte sui redditi sancisce la responsabilità in solido del lavoratore con il suo datore in merito al versamento di queste ritenute, che l’Agenzia delle Entrate può attivare da subito senza dover attendere l’iscrizione a ruolo del debito dovuto al rifiuto, da parte del datore di lavoro, di aderire all’avviso di accertamento. Pertanto, l’Agenzia delle entrate può rivolgere le sue pretese indifferentemente al lavoratore o al datore di lavoro; dopodiché il primo potrà rivalersi verso il secondo per il fatto di non aver versato al fisco le somme trattenute a titolo di ritenuta.

Cordiali saluti.

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LAV13297